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Guarda le luci, amore mio

E’ il titolo del libro di Annie Ernaux che ho appena letto. Mi è capitato tra le mani, “(ri)chiamando” i miei occhi proprio quando stavo riprendendo lo studio sul “diario”, come forma letteraria dell’autobiografia.
Il libro della scrittrice, autorevole voce del panorama della cultura francese, nasce dal voler portare luce su di uno spazio insolito nel mondo della letteratura. Uno spazio che conserva la dimensione più familiare nella memoria, ma allo stesso tempo sembra somigliare ad un non-luogo del sociale: l’ipermercato.  E Annie Ernaux lo fa fuori da ogni tipologia di inchiesta o di esplorazione, nella forma narrativa che più le corrisponde, ossia il diario.
Nelle pagine del libro e dentro il supermarchè la vita sembra pulsare di contraddizioni, di contrasti in mezzo a sfumature di tenerezze e attimi d’allegria.
Qui nel tempio del consumo la quotidianità, ripresa dalla scrittrice come scatti di piccole istantanee, gioca in un microcosmo di relazioni, di sguardi, di ritualità scandite e ritmate da una narrazione diaristica.
La citazione di Rachel Cusk, riportata nelle primissime pagine ci prepara all’incontro …

 

il grande supermercato in fondo alla strada sempre aperto: le sue porte automatiche non si fermano mai, continuando tutta la giornata a ingoiare ed espellere flussi di persone […]”  
… E sembra di camminare insieme con l’autrice sui pavimenti dell’Auchan, di poterne sbirciare con lei ogni angolazione più minuta del tessuto sociale, mentre dà vita ad osservazioni tra montagne di pacchi, corsie di oggetti e piccole casualità.

 

«È qui che ci abituiamo alla prossimità dell’altro, spinti dagli stessi bisogni essenziali di nutrirci, di vestirci. Che lo si voglia o no, qui costituiamo un’unica comunità di desideri».

 

E’ in questo luogo così vicino e familiare che, avvolti da ritmi frenetici e senza rendercene conto, facciamo esperienza dello spazio e della “prossimità all’altro”. Come fili multicolorati, ciascuno e tutti insieme creano  trame di vita e di solitudini.

 

Lì dentro ci si può scordare che non si è soli, o che lo si è” , continua la citazione di Rachel Cusk

 

Lo spazio dell’Auchan, dove la scrittrice si reca per un anno intero con regolarità, somiglia ad un teatro dove si muovono e si intrecciano abitudini e modi negli aspetti più nascosti della vita ordinaria.
Le pagine del diario ci mostrano uno sguardo attento e proteso verso le pieghe più sottili di gesti abitudinari presenti nel quotidiano vivere.
L’occhio osservatore dell’autrice si sofferma con cura sul riportare alla luce ciò che resta confinato ai margini della quotidianità, che non pare cadere più sotto occhi veloci e troppo distratti.
Sembra di ritrovare tra le pagine un’umanità in ogni sua declinazione, che non viene scalfita dall’avanzare prepotente della tecnologia.
Una realtà raccontata attraverso una narrazione analitica, ricca di dettagli e sempre pronta a cogliere la vita nelle sue sfumature,

 

Perché vedere per scrivere è vedere altrimenti. E’ distinguere oggetti, individui, meccanismi e conferire loro valore d’esistenza

 

Vedere per scrivere è forse aprire lo sguardo a nuove visioni delle piccole sfumature,  nelle fessure dell’esistenza.
La conclusione del libro appare avvolta da un sentimento di malinconica nostalgia, che conserva l’odore delle drogherie di un tempo, “dove si prendeva il latte con un bricco di metallo”.

 

Lì tra quelle pareti come all’Hyper U si respira già memoria.

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